Ho un cugino che ha diretto per parecchi anni il laboratorio analisi delle Molinette di Torino. Discutere con lui mi ha insegnato molto, ma una cosa in particolare: la differenza tra fatti e opinioni.
L’approccio scientifico per stabilire qualcosa come un “fatto” è un processo dannatamente lungo e complesso. Si parte da un’ipotesi sperimentale di cui bisogna verificare la validità riproducendo i risultati previsti con esperimenti. Dopo la divulgazione, altri scienziati rivisiteranno gli esperimenti cercando di duplicarne i risultati.
La scienza non accetta qualcosa come un fatto solo perché lo dice qualcuno, anche se insignito di premio Nobel.

In pubblicità e nel marketing invece, è molto diverso. Se voci ricorrenti dicono la stessa cosa per un periodo di tempo sufficiente lungo, nasce un “fatto”. Questi fatti sono raramente validati, ma nelle sale conferenze e nei meeting vengono assunti come princìpi.
Se in molti campi esiste una grande differenza tra fatti e opinioni, in pubblicità e nel marketing un “fatto” non è altro che il consolidamento di una opinione.

Queste convinzioni hanno portato a un tale livello di confusione che un inciso come “il fine della pubblicità è quello di vendere qualcosa” è al centro di controversie e di discussioni infiammate. I Chief Marketing Officiers nelle aziende hanno mille opzioni e una tremenda incertezza sul da farsi, applicano soluzioni di “tendenza”, e spesso non riescono nemmeno a tenersi il lavoro. Il risultato è un gran caos e la perdita di credibilità del marketing.

Una delle cose più difficili che un’agenzia deve fare è giustificare ai clienti perché pagano tutti quei soldi. Questo vale particolarmente se non riesce a dimostrare una relazione diretta tra gli sforzi prodotti e i risultati ottenuti.

Così si costruiscono falsi obiettivi e piste alternative. Termini come brand awareness, brand building, copy test result, advertising award, ecc. non parlano esattamente di risultati reali di vendita, ma sono utili per abbagliare una buona parte di clienti. Le migliori strategie per giustificarsi sono seguire il trend e creare mistero nei processi, con nomi incomprensibili o tecniche strane. Questo dà al cliente l’impressione che l’agenzia sia depositaria di una metodologia di comprensione del comportamento dei consumatori.

Spesso sono afflitto dal fatto che io capisca così poco del comportamento umano, addirittura a volte non so giustificare il mio, mentre altri nella mia professione sembrano capirne così tanto. O queste persone sono straordinariamente brillanti o stanno bluffando. Ma considerando che molto di ciò che conosciamo del comportamento dei consumatori sono opinioni, non fatti, io scommetto sul bluff.

A Hollywood c’è un detto: “Nobody knows anyting”. Questo spiega perché sovente grossi budget, grandi star, film approvati da focus group portano a flop clamorosi. Non è diverso in pubblicità. Molti dei comportamenti dei consumatori sono ovvi, la gente ama le cose belle, i gusti migliori, i lavori soddisfacenti, gli stipendi alti e i costi bassi. Ma c’è una parte misteriosa. E ciò che affermiamo di conoscere della parte misteriosa non sono altro che supposizioni, mascherate come conoscenza.

La cruda verità è che noi pubblicitari basiamo il nostro lavoro su probabilità e speranze: fare pubblicità è un processo che si basa sulla formulazione di ipotesi. Più sono sono precise, maggiore sarà la possibilità di successo, ma sono sempre ipotesi.

Sfortunatamente i nostri clienti non vogliono investire il loro denaro su probabilità e speranze. Vogliono risultati, e li vogliono subito. Così le agenzie di pubblicità spendono un sacco di tempo a vestire ipotesi, probabilità e speranze come fatti.

La cosa che i Chief Marketing Officier dovrebbero capire, invece, è che le migliori agenzie non sono quelle con il maggior numero di Official Consumer Insight Elucidators, ma quelle con il miglior formulatore di ipotesi.

Anche se usiamo le migliori metodologie di ricerca disponibili per capire cosa il nostro consumatore ha da dirci, questo va  stemperato con la consapevolezza che, come me, neanche i consumatori a volte sanno giustificare i loro comportamenti. Forse noi pubblicitari dovremmo essere un po’ più modesti quando affermiamo che sappiamo farlo.