Qualche tempo fa ho letto la presentazione di un direttore creativo di una nota agenzia. Affermava che la loro pubblicità non intendeva vendere prodotti, l’obiettivo era “Costruire i Brand”. Trovo un po’ allarmante questa affermazione, ma l’ho sentita talmente tante volte che ho cominciato a chiedermi se fossi io antiquato, e tutti gli altri avessero ragione. Ma riflettiamo un attimo: come si fa a valutare la costruzione del brand se non attraverso le vendite di prodotto? Come fa costui a sapere quanto più forte è diventato il marchio grazie alle sue campagne?
Avrà fatto una ricerca tra i suoi account planners? Avrà consultato i comitati per l’assegnazione dei premi alla pubblicità? Avrà commissionato sondaggi su qualche focus group? Se é così mi immagino le domande: “…sappiamo che al momento non avete alcuna intenzione di acquistare i nostri prodotti, ma ritenete che il nostro sia un brand forte?”

Quale può essere il miglior indicatore di forza del brand se non la propensione del consumatore a spendere del denaro per acquistarlo? Ma dissociando la pubblicità dai dati reali di vendita, qualcuno ha trovato ciò che il mondo della comunicazione cerca da sempre: il “Comma 22” della pubblicità. Se il prodotto vende bene è perché la pubblicità è brillante, se non vende, la colpa non è della pubblicità, noi stiamo facendo una campagna di branding.

Ecco perché i clienti interessanti non vanno matti per le agenzie di pubblicità, le bugie sul branding alla fine tornano indietro. Non si può dissociare la costruzione del brand dalle vendite. L’idea di separare il marchio dal prodotto, ha portato al fenomeno dei brand senza contenuto, delle scatole vuote. Conosciamo i loro nomi, abbiamo visto le loro campagne, ma non abbiamo idea di chi siano, cosa facciano e perché dovremmo sceglierli. Cosa fa Cisco che Intel non faccia? Cos’è AIG e in cosa è differente da ING?

Gli imbonitori del branding non hanno idea di come i grandi brand siano costruiti, e se ce l’hanno, agiscono superficialmente o peggio, in malafede. Pensano di poterlo fare attraverso le scorciatoie, con il branding. Così, invece del marchio inteso come una cosa intrinseca, organica, che evolve nel tempo con la compagnia, accuratamente fertilizzata dalle pubblicità di prodotto, l’hanno mutata in qualcosa di artificiale da appiccicare a un prodotto mediocre, per renderlo più appetibile, e in fretta. È la nuova frontiera del marketing: se non hai personalità, fatti un tatuaggio.

Oggi la cosa é accettata al punto che alcune campagne sono considerate branding e altre no. Ma è una pratica che non dà risultati. Vi faccio un esempio. Potrebbe essere che un giorno mi incontriate. Se succederà, in quel momento svilupperete un’impressione di me. Che io lo voglia o meno, voi lo farete comunque, e lo farete indipendentemente da ciò che vi ho raccontato al telefono, per fissare l’incontro.

Accade la stessa cosa in pubblicità. Che voi intendiate la vostra pubblicità come branding non conta, potete provarci, ma il pubblico svilupperà un’impressione del vostro prodotto e di conseguenza del vostro brand, senza riguardo per ciò che voi vorreste che pensasse.

Molte agenzie intendono per branding campaign quelle che non trattano il prodotto. Campagne sul consumatore, sulle sue sensazioni, sulle emozioni, sul modo in cui il brand interagisce con la sua vita. In pratica la nuova versione della “lifestyle advertising” dell’epoca d’oro della pubblicità. Ma c’é una differenza sostanziale: nella lifestyle advertising lo stile veniva creato dal prodotto.
Le grandi compagnie non sono state costruite dal branding, ma da prodotti eccellenti, da servizi migliori, da packaging distintivi, da distribuzioni capillari, da eccellenti pubblicità, e da tanta pazienza.

I brand hanno bisogno di carattere, non di tatuaggi.